Funzioni del sonetto

Le molteplici funzioni del sonetto

di Natascia Tonelli

Percò ti prego, Dolcetto, tu che sai la pena mia, che me ne faci un sonetto e mandilo in Soria – Rinaldo d’Aquino

Lo statuto del sonetto,1 fin dal suo presentarsi sulla scena della corte imperiale come il prodotto più originale e già perfetto della politica culturale di Federico in materia di poesia, si propone come formalmente chiaro e dunque ben delineato metricamente – ma al tempo stesso suscettibile di una gamma di realizzazioni che sono sia sincronicamente attestate sia, in particolare e soprattutto, future, le quali, lungi dall’intaccarne la riconoscibilità, ne consentono una potenzialità vitale che a tutt’oggi pare protrarsi. Contestualmente, la sua utilizzazione spazia dal caso dell’elemento isolato, puramente lirico e spesso drammatico la cui eventuale collocazione in serie di solito mistogeneri darà poi luogo ai canzonieri, ad ideale’battuta’ di dialogo nello scambio di testi in tenzoni anche di tipo speculativo, da tassello in una collana di testi generalmente tematica, a «stanza epica» finalizzata alla narratività poematica.2 Ognuna di queste funzioni native (cioè già pertinenti alla Scuola siciliana: sonetto isolato o in tenzone) o di tradizione immediata (ancora duecentesche: sonetto in collana tematica, elemento base di canzoniere o anche, ben più raramente, di poema) continua a mostrare diritto di cittadinanza nel panorama più recente della poesia italiana.

Quanto all’uso isolato e altamente drammatico che del sonetto può essere registrato nel secondo Novecento basterà rinviare al sempre citato Sonetto di Franco Fortini:3 sulle stragi razziali, il testo, che esibisce il titolo metrico quasi a dichiarazione enfatica della volontà di ancorarsi alla tradizione poetica quale baluardo verso la dolorosa irrazionalità del presente, si pone come lapidario testimone del possibile valore tragico della forma; in linea, direi, con quell’interpretazione ideologica che pochi anni dopo, nel’53, giungeva a conferirle Aragon. E sempre a iniziare da Fortini è possibile esemplificare anche quella che Gorni individua come «prima istanza» del sonetto poi perduta, a suo avviso, nella coscienza del «lettore e autore moderno (ma già anche della tradizione lirica che fa capo a Petrarca)»: il suo porsi quale «proposta colloquiale, voce singola che fa appello a un coro di voci, individuo metrico candidato all’aggregazione testuale con altri suoi simili» (p.68). Infatti, per ricordare fra le tenzoni poetiche il solo antefatto della Vita nuova che esordisce col sonetto di proposta di Dante a coloro che hanno intendimento d’amore (A ciascun’alma presa e gentil core), il sonetto di Fortini ad Andrea Zanzotto Per l’ultimo dell’anno 1975 «Come nel buio si ritrae lento / Andrea…»4 ha tutte le caratteristiche di una proposta di riflessione cui il diretto chiamato in causa risponde perlomeno con la Postilladell’Ipersonetto (se non con tutto l’Ipersonetto). Questa, dedicata appunto a Franco Fortini, nel primo verso riprende con ogni evidenza sebbene solo per il tema della patria irreale, celeste o terrestre che sia, ma con ribaltamento di tono, dalla profezia all’invettiva – la chiusa di quel primo sonetto («Quanto sei bella, giglio di Saron, / Gerusalemme che ci avrai raccolti. / Quanto lucente la tua inesistenza» : «Somma di sommi d’irrealtà, paese»); e sarà da riconoscere, nel rispondere con sonetto (o con quattordici più due…) a sonetto, l’allusione alla rigorosa pratica tradizionale che voleva il risponditore usare le stesse rime del proponitore, proponitore il quale si dimostra «fedele», secondo le parole dello stesso Zanzotto, «ad una specie di ‘corrispondenza’» consuetudinaria fra i due. E, d’altra parte, proprio l’uscita della Postillasu «Tuttolibri» (12.8.1978) fu accompagnata dalle dichiarazioni di Zanzotto relative alla sua esperienza del sonetto – moltiplicato, inoltre, per il numero dei suoi versi -, rivelatrici d’uno spirito di sottomissione al dispotico imporsi del metro quasi si trattasse di adeguarsi ad una condanna immanente ad ogni fare poetico; e dunque, al tempo stesso, del valore più che emblematico di quella forma alla cui forza attrattiva e sfida non ci si può sottrarre:

Inutile inoltrarsi nell’inchiesta sul perché ci si ritrovi a scrivere, a scambiarsi sonetti anche oggi. Evidenti motivi di obbrobrio si assommano a minacciose intimazioni di necessità […] Resta il sentimento di un vero e di un falso minotaurizzati come non mai nel sonetto, proprio in questa figura, che sembra avere il diritto di riassumere tutti i deficit della fictio letteraria e poi della società letteraria, e poi di tutto quel che si vuole. Eppure, maledettamente, questa figura presenta anche una sua irriducibilità da frammento di una cristallografia o petrografia del profondo non mai esplicata del tutto, da segno e disegno mandalico assolutamente eterodosso, ma sicuramente autorizzata e autorevole, col suo dinamico telescopage di allusioni, a perdita d’occhio.

Ma una terza voce si aggiunge a questa coppia, e implicitamente dice, scrivendone, della praticabilità della forma sonetto; voce che però lo fa in modo esplicito e nel corpo stesso del testo. Su «Sigma» del 1983 Gian Luigi Beccaria proponeva alla discussione di critici e poeti il concetto di «grande stile»: se applicabile o rinvenibile nella poesia del Novecento. Ai molteplici interventi in prosa si aggiungono due soli interventi in versi: Alto, altro linguaggio, fuori idioma? di Zanzotto, che con varianti per sottrazione diventerà poi, se non in senso proprio l’eponimo, certo il testo raziocinante e definitorio della raccolta Idioma(1986);5 e son sepulchre di Edoardo Sanguineti, sonetto, appunto, che ne aggregherà poi altri, anche, in particolare, sul tema della poesia, in Senzatitolo.6 La dichiarata rinuncia al «grande stile» oggetto dell’indagine («abrenunziò al’grande stile’», v.5) pur di «allontanare da sé…il brodo del poetese» (8-9), avrebbe portato il soggetto dell’epigrafe funeraria che il sonetto rappresenta (il poeta stesso o il Poeta in generale o forse un poeta specifico, altro, alluso?) all’espropriazione di sé, alla dispersione dissipazione, lasciando come sorta di elemento residuale fra ciò che è sopito (e, pare, negativo) e il tecnicismo o scolasticismo (che sembra comunque sopravvivere e che si può trasmettere, tramandare) proprio i sonetti, anzi, gli ipersonetti. L’ultimo emistichio lapidario («i prassi-, / i socio-historiopathici ainigmatici / dormono in lui: (e il resto è ipersonetti):», vv. 12-14) credo non vada disgiunto dalla corrispondenza poetica di pochi anni avanti (benché per slittamenti progressivi, da Fortini attraverso Zanzotto, dal contenuto al mezzo che era stato usato per esprimerlo) a cui si guarda forse con spirito polemico, ma con disponibilità nei fatti (attraverso un sonetto) alla riflessione sulla forma e sul suo rapporto col’grande stile’. E’ dimostrazione dunque, per il sonetto, dello specifico interesse di Sanguineti anche a livello di poetica;7 ma, contestualmente, della chiara intenzione di chiamare in causa, a proposito di quella riflessione teorica, proprio l’Ipersonettozanzottiano (e, in controluce, io credo anche quello di Pasolini, il Sonettoprimaverile pubblicato nel ’608).

Con l’Ipersonetto evocato in sede di corrispondenza siamo all’esemplificazione recente forse più nota della collana di sonetti sul modello, per addurre un immediato referente antico forse tenuto presente da Zanzotto, della serie dei mesi di Folgore da San Gimignano. Ma anche il piccolo nucleo tematico omometrico è già rappresentato prendendo le mosse appunto da son sepulchre: in Senzatitolo del’92 si aggregano a quel testo altri due sonetti, Catasonetto (sempre datato giugno 1983) e Che cosa è la poesia (novembre 1986), che vanno a costituire un nucleo di autoreferenzialità teorico-poetica; ma ancora la sezione Ecfrasi della raccolta di Sanguineti ospita due collane di sonetti, a tema pittorico e dedicate (per Guido Biasi, per Emilio Scanavino), i cui elementi sono numerati (Petit tombeau 1, 2, 3; Animali elementari 1,2,3,4) nonché un sonetto singolo titolato Per C.C. Da proposta poetica a risposta ‘per le rime’ col corollario della collana, la forma sonetto provoca l’aggregazione di un testo ulteriore che ancora’risponde’ a distanza di anni e che, grazie ad un’estrinseca provocazione linguistico-stilistica, di nuovo conduce, oltre che a quel precedente complesso testo sonettistico indotto dal primo pezzo della serie, anche alla costituzione di un nuovo nucleo tematico: a dimostrazione di una sua attualità nell’uso affatto ‘serio’ che i poeti possono farne nelle loro discussioni per versi. D’altra parte, si apre con versi che provengono da un sonetto di Fortini la prima sezione di Congedo della vecchia Olivetti di Gianni D’Elia, Lettera 32: «Io dico, improvvisando, che ancor prima / tu mi venissi a rammentare, Gianni», sonetto col quale Fortini rispose privatamente (8 novembre 1993) «alla poesia a lui dedicata», Lettera 32, appunto.9 I due testimoni di uno scambio sonettistico fra Gabriele Frasca e Marcello Frixione sono depositati nelle rispettive raccolterame (ma solo nella seconda edizione sensibilmente modificata10) e Diottrie:11 la nota autoesegetica di Frasca a «ciò che mi spense fu sparirmi intorno / come un’onda dispersa che si espanda» dedicato in esergo «a Marcello Frixione, dal sepolcro di Guido Nerli» (ma anche nel corpo del testo: «ora marcello gli sto dentro ai nervi», v. 9) dichiara appunto la natura di «risposta» del testo «ad un invio di Marcello Frixione (contenuto in Diottrie)» : «a guido nerli, sul sepolcro suo», «dove t’inarchi (nerli) d’alabastro». Ma il Frixione funge anche da risponditore, sempre con sonetto a sonetto, nella sua scelta antologica comparsa in «Novilunio» anno 2°, 1992, che comprende il Sonetto metodologico a M. Berisso: «a te che poni quesiti d’amore / io qui non saprò dare, in due quartine / e in una sirma, a rime in -ore, in -ine, / che qualche càveat preliminare».12 La risposta è una delle varie, in sonetti (ma la sola a stampa), ricevute da Marco Berisso che proponeva con un sonetto ‘circolare’ di riaffrontare le tradizionali quaestiones sulla natura d’amore…

Anche la forma del contrasto amoroso, col fittizio invio di sonetti fra gli amanti, è riprodotta in una versione delicatamente attenuata perché dovuta ad uno scambio di battute fra madre e figlia: il primo sonetto attribuibile alla voce della figlia «Eccoci al bivio in cui le nostre vite / devono separarsi, madre», il secondo, la risposta, alla madre: «Figlia, hai centrato il colpo. Non so dirti». Si tratta dei soli due Sonetti del distacco di Maria Vettori pubblicati in «Semicerchio» XIX,2 (1998). La tipologia amorosa, a fortiori, sia singola sia in serie, originaria e caratteristica della forma, continua ad essere ben rappresentata: al punto che il tema dell’amore può giungere a venir convogliato in raccolte metricamente composite proprio ed esclusivamente dal sonetto. Penso, ad esempio, al caso di Lime di Gabriele Frasca,13 in cui la sezione rimasti è composta da 16 sonetti, i primi sei dei quali, evidentemente nucleo originario e più compatto, erano stati scritti fra il’79 e l’81 (cfr. la Nota finale), mentre i successivi appartengono invece, senza ulteriore specificazione, al decennio precedente l’uscita del libro. I sonetti più antichi si propongono come inserto a tematica amorosa nettamente identificabile:14 cosa non altrettanto evidente, e forse non scontata, nei sonetti d’epoca successiva, i quali comunque, per contaminazione simpatetica, sono a quelli subito associabili per contenuto grazie, in primo luogo, alla forma che li raccoglie in una sola sezione, e anche per semplice scarto tematico dal resto d’un libro in cui d’amore altrimenti non si tratta.15 Qui, invece, i collegamenti lessicali da testo a testo, fortissimi nella prima porzione, continuano a funzionare anche nella seconda con rilancio di parole chiave che tramano per costituire un vero e proprio piccolo canzoniere amoroso. I segnali di continuità fra i due settori cronologicamente distinti si mostrano non appena venga superato il disorientamento indotto dalla diversa realizzazione sintattica dei secondi sonetti, la quale è per lo più (in sette su dieci) pesantemente condizionata dalla presenza ossessiva della punteggiatura a spezzare il discorso e la frase in sintagmi isolati secondo la’nuova maniera’ di Frasca: «mentre che il tempo. mentre che ci porta / l’uno nell’uno. e l’altro all’altro ancora. / sul bivio che ci spaia e ci addolora / resto. graffiato il cuore. a mente morta. / morta. morisse. o rimanesse assorta….». La stessa prerogativa amorosa del sonetto si manifesta in Ponte Milvio (1988)16di Marco Lodoli: il libro ha una sezione amorosa rappresentata da 12 sonetti (più una stanza di 17 versi) e titolata I sonetti del male in cuore. Ma primaria questa loro funzione la era già nei Medicamenta (1982) e poi nei Medicamenta e altri medicamenta (1989)17 di Patrizia Valduga, dove, in un libro tutto d’amore, i sonetti costituiscono la forma privilegiata. Addirittura tutto omometrico L’amore in forma chiusa (1997)18 di Roberto Piumini, il cui sottotitolo rivendica con buon diritto l’ambito elettivo di appartenenza, quello del Canzoniere. Cento sonetti che raccontano l’amore e il farsi della poesia che nasce col primo incontro («Prima che tu mi fossi conosciuta / c’erano fioche ere: dal profondo / di un’infinita assenza sei venuta […] Ti ho trovata degna di ogni canto») e finisce, nella specificità sonettistica, col finire dell’amore: «Novantanove, i sonetti d’amore, / e questo solo per dirlo finito». La voce al poeta è sgorgata e si confonde, come da tradizione, con la vicenda amorosa benché non vi sia un’evoluzione’storica’, una narrazione degli eventi ad illustrare una parabola sentimentale; per contro una descrittiva lirica priva di evoluzione: se non sul piano, appunto, del farsi e crescere dell’autocoscienza poetica. I due piani amore e poesia – sono intersecati al punto che la riflessione sul sonetto e sulla liceità del dire amoroso in sonetti spesso prevale sulla necessità del dire, quasi che il tema erotico costituisca in realtà un pretesto per fare sonetti. Tuttavia viene assicurata in rebus, perlomeno nelle dichiarate intenzioni dell’autore se non sempre nella realizzazione, l’autenticità e l’attualità del sonetto quale veicolo ideale di espressione della poesia amorosa:

Perché in sonetti? Non è cosa trita
cantarti in questo stile medioevale
piuttosto che nella forma scaltrita
di una scrittura nuova e disuguale?

E non sarà che il linguaggio antico
mi porti a far figure un po’ datate
e le espressioni che scrivendo dico
sembrino o peggio siano inadeguate?

Non credo, se leggendo ogni sonetto
ti sembrerà che quello che ho detto
siano la mia voce e il vero accento.

Non credo, se ascoltando ogni verso
non avrai dubbi che con te converso
e non con qualche dama del Trecento.

La forma poematica, narrativa in senso tradizionale, nell’ultimo ventennio del secolo ritrova anche in Italia momenti di espressione vincenti (La camera da letto, L’angel) rispetto alla possibilità del collegamento di frammenti con eventuale funzione narrativa; ma il sonetto, che si è prestato raramente a tale scopo (Fiore; e, nei primi due decenni del secolo, come già segnala Marazzini, con Francesco Chiesa e con Francesco Pastonchi), ha potuto di recente assolvervi, anche nella forma di breve resoconto poetico. I Sonetti di infermità e convalescenza, prima sezione di Ogni terzo pensiero di Giovanni Raboni(1993),19 non sono semplicemente una collana di sonetti minori a tema come per understatement il titolo tenderebbe ad indicare, ancorché già individuando un’evoluzione cronologica, bensì, appunto, la storia di una degenza ospedaliera dal momento prechirurgico e anestetico al ritorno alla lucidità e alle cure nella completa dipendenza da cannule e infermiere, fino al recupero dell’autonomia nutritiva che conclude la serie: «Niente comporta le delizie / del pasto di un riabilitato […] ai cautelosi sfizi / restituito (e bei palmizi / fuori) del prosciutto tritato // fine, del soffice puré, / della pasta soavemente / scotta». Tanto più che questi nove sonetti, la cui misura versale oscilla fra il senario e il novenario con netto prevalere dell’ottonario, trovano conclusione (e in certo senso riconoscimento dell’identità narrativa) al loro esterno, in particolare nel primo degli Altri sonetti, terza e ultima sezione del libro: «Sogno infaticabilmente da un po’ / di tempo: come in ospedale». Tramite il rinvio dal primo di questi Altriviene garantito il depositarsi, in quella serie di primi sonetti, del racconto, appunto, dell’esperienza di malattia già narrata e che dunque il lettore ha già acquisito.

Più esplicitamente poematico l’uso che Riccardo Stracuzzi fa del sonetto quale stanza: stanza che però non è tradizionalmente aggettivabile come’epica’ o ‘narrativa’ visto che il contenuto è, viceversa, amoroso e la lingua e l’atmosfera sono statiche e parnassiane. Ma decisissima invece è l’utilizzazione continuata del metro, al punto che fra sonetto e sonetto dei cinque sonetti senesi(«Semicerchio» cit.) esiste sempre un più o meno marcatoenjambement (cito il verso primo e ultimo di ogni sonetto): I, «Tra i prati della tuberosa ruggini… preziosa di carezze ai simulacri»; II, «madreperlacei. T’avevo nei sacri…. Fitto di sillabe schierate a ellissi»; III, «d’oro, tra i frutti aspri dell’amareno… vergine sulla soglia, alla deriva:»; IV, «: (sentimi, e spècchiati dove diroccia… pugno di rena da donarti, e il laccio»; V, «d’una radice a forma di catene… e dové farsi il vento, tra i carruggi:». Inoltre, da testo a testo si intrecciano le rime che ribadiscono anche fonicamente, lessicalmente e metricamente, e con vincolo inalterato a determinare un preziosissimo artificio (ma di questo più oltre), il trascorrere non solo narrativo e sintattico del discorso. Addirittura esterne al testo metrico e in corsivo fra un sonetto e l’altro (qui fra il quarto e il quinto e avanti il primo) esistono didascalie esplicative ma non per questo meno’poetiche’ – che accentuano e guidano al senso narrativo della sequenza con indicazioni per la sua collocazione spaziotemporale (ad es. a questo scopo servono i versi di Montale posti a didascalia iniziale: «nella purpurea buca / dove un tumulto d’anime saluta / le insegne di Liocorno e di Tartuca»). Questi cinque sonetti incatenati costituiscono il nucleo centrale di una serie compatta, per il resto non a stampa, di 14 testi (altro fatale ipersonetto…) dal titolo complessivo le quattordici lune. 

Ma di collane, e anche con intento poematico, se ne contano ben altre. Voglio ricordarne una molto recente, la Corona per un Capodannocontenuta nel Meridiano di Greenwich di Fernando Bandini,20 formata da sette sonetti di assoluta regolarità; un’altra, sempre di sette sonetti, di tragica compostezza e regolarità: Al tuo sparire di Enzo Mazza (1: «Non si apre luce nei pensieri o nome / contigui al sogno che tu sia risorto…»;21) e la Traversata d’un giorno di Mauro Mori22 di diversa ambizione: i sonetti, sola forma presente nel libro, nel numero di 48 si suddividono in quattro sezioni che raccontano la traversata della città di Firenze e l’incontro con personaggi e luoghi della quotidianità. Il sonetto, nella sua forma inglese, si fa veramente stanza narrativa, metro popolare con rima baciata al fondo, adatto a recepire inflessioni dialettali e un parlato basso; la continuità è proprio tale da un testo all’altro, continuità nello spazio e nei personaggi che lo abitano: «Nella piazza dei Ciompi sono solo / Berto mi dà il panino a prezzo fisso…» 4, 9-10 : «Nella piazza la loggia c’è del pesce / salvata da un pogromtempo fa / ricovera quel tipo che tossisce…» 5, 1-3. E ancora, in un libro quasi esclusivamente in sonetti, Ombra futura di Lucia Sollazzo,23 fra le altre serie tematiche di sonetti, una collana più legata al contingente ed esplicitamente collocata,Millenovecentonovantaquattro, nucleo forte della sezione dei Sonetti italiani, tutti destinati a raccogliere una testimonianza di coerente impegno etico e politico della parola poetica.

Continuità, non solo spaziale ma spiccatamente narrativo-cronologica, nel poemetto storico di Nicola De Donno, Li Turchi a Utràntu (in La guerra de Utràntu24) formato da due sezioni, Li màrtiri de Utràntu eUtràntu de li màrtiri rispettivamente di 13 e 8 sonetti, nelle quali si narra l’eccidio dell’irriducibile popolazione otrantina compiuto dai Turchi dopo la presa della città nel 1480: il racconto si dipana dall’uno all’altro sonetto, ognuno dei quali funziona proprio come stanza narrativa con riprese di tipo epanalettico («vàsane l’osse, le fannu a ccullana» 2, I, 14 : «Na cullana de Màrtiri pe Utràntu» 2, II, 1; «lu r�cciulu de Idrusa se nturcina / bbiondo a lli fili scuri de la storia» 2, IV, 13-14 : «La storia vale nu ppe ccomu è stata» 2, V,1) o anche con rinvii e richiami funzionali proprio al procedere della narrazione («Cce sse ne preme a Utràntu de Ferrante / cu tutta la strappina d’Aracona / la ggenticedda…? […] lu castellu / de la corte sì e nno sap�ne cce era» 1,I,1-3 e 14 : «Ma sap�ne lu nervu de lu pane» 1, II, 1 : «E’ ssoa, sta Utràntu, de sta ggenticedda…» 1, III,1).

Il dialetto, dunque, non resta certo assente dalla produzione sonettistica contemporanea: di De Donno anche il più recente Lu senzu de la vita25 in dialetto magliese (Salento), è prevalentemente in sonetti di assoluta regolarità rimica ed endecasillabica; in I rascenìje26 del molisano Giose Rimanelli si trova un sonetto scritto a Jacksonville, Florida nel dialetto di Casacalenda, U rré d’u pègliare. Peraltro andranno almeno ricordati i precedenti del Pasolini della Meglio gioventù27 e i sonetti di Noventa. Non solo il dialetto, ma anche lingue «metasemantiche», come quella inventata da Fosco Maraini, rendono il loro omaggio alla forma: in Gnòsi delle Fànfole28, insieme a componimenti in quartine sono presenti anche sonetti canonici dove lo spirito del Burchiello meglio alligna benché non esplicitamente evocato. Come nel testo incipitario che contiene la famosa descrizione del Lonfo («Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta») o come nell’elegiaco Fiore secco in libro vecchio.29Utilizzazione non riservata tradizionalmente a una forma metrica esclusiva è quella nel prosimetro: Tommaso Landolfi nel Breve Canzoniere30 usa invece il solo sonetto per dar vita ad un canzoniere-romanzo breve d’amore dove una collana di 14 sonetti viene offerta all’amata ispiratrice, ma nello stesso tempo sottoposta al suo giudizio; tutt’altra atmosfera per il sonetto dove si mescolano Baudelaire e Nerval e che trova posto, insieme ad altri versi, nel romanzo Crema Acida di Tommaso Ottonieri.31

Nella stessa area’pulp’ che ha voluto ora riproporre il prosimetro, si può collocare ancora una forma narrativa mista in sonetti e ottave adottata da Antonello Satta Centanin che, in una collana di sarcastica commemorazione di personaggi e feste religiosi32 composta da sonetti (Sacrestano,Tutti i Santi, Comm. dei Defunti), con il sonetto Pasqua, dove si racconta il passaggio dalla vita alla morte della voce narrante e la sua entrata nel ventre di un demone, dà il via ad una serie di ottavine in settenari molto ritmati (con rime sdrucciole e tronche in sedi fisse) che contengono il divertente ritratto dei personaggi incontrati «in mezzo ai succhi gastrici» con la fulminante descrizione della loro morte e concluse nel memento mori dedicato al lettore.

Altra funzione espletata dal sonetto è quella di apertura, prolusiva di raccolte composite di rime: è un sonetto il testo esordiale della Vita nuova e, probabilmente facendo seguito all’indicazione dantesca, sarà un sonetto ad aprire i Rerum vulgarium fragmenta. Anche di questo valore liminare della forma si trovano casi contemporanei. Le preghiere di Ariele di Roberta De Monticelli,33 ad esempio, aprono e chiudono la prima eponima e fondante sezione (la seconda e dipendente da questa è, infatti, Altre preghiere) con la forma sonetto altrimenti non ricorrente nel libro: un Prologo, Ho sognato di Prospero e d’Ariele e un Epilogo, Non ha radice nell’aria la luce. Anche l’unica approssimazione al sonetto operata da Nelo Risi, ma perché dichiarata dal titolo metrico Quasi un sonetto, appunto, rappresenta il testo esordiale di Dentro la sostanza34 («Ma ci pensi, Cara / quant’energia si sgrana…»).

Da NATASCIA TONELLI,
Aspetti del sonetto contemporaneo, Pisa, Edizioni ETS, 2000


Note

Premetto che, visto il valore anche iconico che riconosco alla forma-sonetto, sar� rispettosa della disposizione dei versi e dei testi citati, i quali saranno riprodotti secondo le caratteristiche della mise en pageoriginale in particolare per quanto riguarda gli stacchi tipografici e i rientri dei versi.

2 Cfr. Gorni, Il sonetto cit., per una analisi completa delle «valenze» della forma sonetto.

3 Foglio di via (1946), in Una volta per sempre, Torino, Einaudi 1978, dove porta ad epigrafe una frase tratta «Dal diario di una dodicenne polacca, 1944».

4 In Paesaggio con serpente, Torino, Einaudi 1984.

5 Segnalo la soppressione dei versi 11-13 nei quali era depositato un diretto intervento dell’io non in quanto poetante ma personaggio ‘lirico’ ritratto nell’espressione ‘realistica’ (con tanto di similitudine) della propria angoscia, nonché il verso conclusione costituito, in alfabeto greco, da quello che sarà poi il titolo, appunto.

6 Milano, Feltrinelli 1992.

7 Che il giovane Sanguineti collaborasse all’elaborazione dell’impegnativa antologia Il sonetto. Cinquecento sonetti dal Duecento al Novecento (a cura di G. Getto e E. S., Milano, Mursia) uscita nel 1957, mentre nel 1956 pubblicava Laborintus e nasceva il «verri» attorno al quale cominciava la fase di gestazione del Gruppo 63, é episodio biografico-storico da ricordare.

8 Milano, All’insegna del pesce d’oro.

9 Cfr. G. D’Elia, Congedo della vecchia Olivetti, Torino, Einaudi 1996, Note, p. 103.

10 Lavagna, Zona 1999; nella prima (Milano, Corpo 10 1984) non compariva questa prima sezione di sonetti.

11 Lecce, Manni 1991.

12 «ora il problema è se (escluso il cuore) / sia nella neocorteccia, o in qualche enzima / (e in che sinapsi, in quali adrenaline) / che pone sede e trae natura amore. // forse in entrambi, e forse un tutto sono, / o forse amore è stato funzionale / che in un processo astratto ha compimento; / – o è disposizione al comportamento, / o flatus vocis, flogisto mentale: / fra queste alternative incerto sono».

13 Torino, Einaudi 1995.

14 E con esiti particolarmente efficaci:

quando un insulto sosta impresso al novero
delle memorie o quando invece astuta
l’immagine futura d’ogni muta
stagione rianima lo stesso dove
quasi dimenticando quanto muove
rapido il tempo a chiederti la muda
o se riprendi già la tua caduta
nel mio cadere t’hai rivolta altrove
altrove altrui fai donna altrove è furia
e vischio altrove oriente attende in ore
vizze amarilli o clizia o santa spuria
ma qui nel cranio dove hai sparso spore
qui tutto è polvere poi che d’incuria
tu seminasti il vento nel mio cuore.

15 Con l’eccezione, ostentata, che di fatto conferma la regola dei versi d’amore: titolatura per antifrasi rispetto al contenuto del testo.

16 Roma, Rotundo.

17 Torino, Einaudi.

18 Genova, Il melangolo.

19 Milano, Mondadori.

20 Milano, Garzanti 1998.

21 In Uno di questi giorni. Poesie scelte (1954-1994), Perugia, Biblioteca Cominiana 1996, dove sono presenti numerosi altri sonetti.

22 Udine, Campanotto 1990.

23 Milano, Archinto 1997.

24 Milano, All’insegna del pesce d’oro 1988.

25 Milano, All’insegna del pesce d’oro 1992.

26 Faenza, Mobydick 1996.

27 Cfr. Furio Brugnolo, La metrica delle poesie friulane di Pasolini, inPier Paolo Pasolini. L’opera e il suo tempo, Padova, Cleup 1983, pp. 21-65.

28 Milano, Baldini e Castoldi 1994 che riedita, ampliandole, le Fànfoledel 1966.

29 Ricordi quando usavano le boppie
calate sui pitànferi supigni,
e légoli girucchi a panfe doppie
ornavano gli splagi e i pitirigni?

Oh zie, oh dolci zie in bardocheta
voltatevi col glostro ricamato,
scendete per le scale a beta beta
dai màberi del tempo agglutinato!

Chissà laggiù se ancora la sbidiera
gramugna lentamente a cantalaghi
nell’ufe coccia coccia della sera?
Or più non usa uscire sugli sbaghi
guardando avanti a sé con aria altera,
tra i lùcheri, gli arcostoli, gli snaghi.

Sulla lingua delle Fànfole vedi l’Introduzione dell’autore, ed. cit., pp. 15-20.

30 Firenze, Vallecchi 1971.

31 Anche se la struttura del sonetto viene trasformata in una sequenza di tre quartine. Il romanzo è edito a Lecce, Piero Manni 1997.