Dai racconti delle “Veglie di Neri!”
In una botteguccia d’un povero casolare alle falde della montagna stavano due pastori attempati oltre la cinquantina, i quali, appena che fui entrato, attirarono tutta la mia attenzione a motivo di una certa loro aria d’impazienza e di sgomento, per la quale pareva non potessero trovare fermezza. Si asciugavano il sudore dalla faccia senza che fosse caldo, sospiravano forte, e barattando fra loro occhiate dolorose e pochi monosillabi, non levavano un momento gli occhi dalla vetrata per guardare attenti sulla via che per quattro buoni tiri di schioppo si stendeva bianca e polverosa davanti alla porta.
«Voi vorrete bere, eh giovanotto?», mi domandò la padrona, vedendomi sedere in disparte a un tavolino di legno tinto.
«Mangerei anche un boccone, Verdiana, se ci avete qualcosa di buono da darmi.»
«E sa», disse dopo avermi un po’ osservato, «mi scusi tanto perché proprio non l’avevo raffigurato. Che fa? sta bene? o la su’ famiglia è fiera?»
«Tutti bene: grazie. E voi?»
«Sissignore, mi contento. Quando deve andar male, vada sempre così. O con chi si discorreva di lei l’altro giorno?… Ah! ci passò quello delle strade che viene a contare i monti de’ sassi…. sarebbe l’ingegnere? Mi domandò se c’era più stato, e io gli dissi di no. Se vole che gli affrittelli dell’ova, si fa in un momento; se no, gli posso dare un po’ di cacio fresco, ma proprio bono. Non ci ho altro.»
«Tre uova pochissimo cotte, e subito.»
«Sissignore.» E si avviò per andarmele a preparare. Ma quando ebbe fatto quattro passi, tornò indietro per dirmi: «A proposito! ci sarebbe del baccalà che ho lessato per quest’omini e per quelli che devon arrivare. Si deve sentire se gliene voglion ricedere un po’?».
«No no; lasciate correre, Verdiana. Piuttosto, a proposito di questi uomini, ditemene qualche cosa: chi sono? di dove vengono? chi deve arrivare? che hanno, ché mi par di vederli tanto affannati?»
«Hanno il mal del povero, glielo dico io cos’hanno; quel malaccio che si tira dietro le sette piaghe peggio della carestia Se lo crede, da un par d’ore che son qui m’hanno straziato il core che mi par d’essere come quando s’è fatto un sognaccio colla febbre. Proprio, a volte, si dà certi casi che, in verità, anche a esser cristiani, ci sarebbe da dire certe eresie da mettere a risico la salvazione dell’anima. Lo vede quello appoggiato al banco, che si gratta la barba? Quello li è il babbo d’un giovanotto che s’innamorò della figliola di quell’altro. Son tutt’e due di per in su; il posto come si chiama non gliel’ho domandato: ma dev’essere dimolto lontano perché dianzi alle dieci quando mi sono arrivati erano stanchi che non ne potevano più, e m’hanno detto che s’eran partiti a levata di sole. Insomma, per fare il discorso breve, dice che que’ ragazzi si volevano sposare a tutti i costi, e non c’era, dice, neanche tanto da comprare le panchette del letto. Allora lui, si direbbe il giovanotto, che non s’era mai mosso da casa, perché pare che avesse poca salute, fece un cor risoluto, s’attruppò con de’ pecorai di Fiumalbo, e se n’andò per le Maremme a tentar la ventura anche lui. Ma ora, aspetti, gli dico che faccia sentire anche a lei l’ultima lettera che gli ha scritto ‘l su’ figliolo.»
«No, No! Dio ve ne guardi! Raccontate, raccontate, Verdiana.»
«O l’òva non le vòle?»
«Non importa. Datemi un po’ di cacio e tornate qui.»
Io, benché non sapessi ancora di che cosa si trattasse, guardavo con crescente compassione que’ due poveri vecchi stralunati, pallidi e polverosi, i quali ora sedendo ora guardandomi sconsolati, e non trovando mai posa in un luogo, pareva che cercassero dove liberarsi da un pensiero tormentoso che li perseguitasse.
«Che ore sono, signore?», mi domandò finalmente uno dei vecchi.
«Sentite? suona mezzogiorno ora alla Pieve.»
Si levarono il cappello, dissero l’Angelus Domini appoggiandosi coi gomiti ai regoli della vetrata, e, dopo essersi scambiati uno sguardo meno desolato degli altri, tornarono a guardare attenti alla via.
In quel momento la padrona mi pose in tavola una fetta di cacio sopra un foglio giallo, un bicchiere e un fiasco di vino, e sedé di nuovo di faccia a me, domandandomi dove s’era rimasti. «Alla lettera che il giovanotto…»
«Ah! sissignore, e sentisse che bella lettera! Quello, secondo me, dev’essere un giovanotto che deve aver letto di molto, perché… Ma, aspetti, gli domando se gliela vòl far legg…»
«No, no! v’ho detto di no.»
«Insomma, una lettera gli dico!.., che, a male agguagliare, dice così: Dice che hanno fatto bene a mandargli a dire della malattia della ragazza; che in quanto a restar butterata nel viso non se ne dessero pena, ché a lui non gliene importava nulla, purché la su’ ragazza fosse restata sempre della medesima idea di volergli bene; che lui era fiero; che la Maremma, grazie a Dio, gli era andata bene, e che intanto gli mandava una ventina di lire per le prime spese. Eppoi tant’altre cose, eppo’ da ultimo dice che il dì otto, che sarebbe oggi, ritornava, e che mandava un bacio a tutti, e anche alla su’ Giuditta. Eppoi, prima di finire, gli dice che in caso d’una disgrazia gliel’hann’a mandare scritto subito, perché lui a casa non ci sarebbe più ritornato.»
I vecchi s’eran fermati a sedere, e ci guardavano fissi, a bocca aperta.
«Dite più adagio, Verdiana, perché vi stanno a sentire.»
«Eh, povera gente! chi sa dov’hanno la testa!», mi rispose la padrona, e continuò: «Il su’ babbo, del giovanotto, dice che gli rispose subito la settimana passata che l’aspettavano a gloria, e che la ragazza era addirittura fuori di pericolo».
«Eppoi?»
«Eppoi per fare il discorso breve, la ragazza cominciò a peggiorare appena andato via il postino; la sera, peggio; la mattina dopo, peggio che mai, e ieri sera, per fare un discorso solo, rese l’anima a Dio, e a quest’ora è per la strada che la portano al camposanto.»
«O mio Dio, mio Dio, pigliate anche me, non ne posso più, non ne posso più!» Così dicendo, il babbo della ragazza, che aveva sentito le ultime parole del racconto, si buttò attraverso alla tavola già apparecchiata per loro, dando in un largo scoppio di pianto e lamentandosi con voce rantolosa: «Ah! ah! ah!».
Detti un’occhiata di rimprovero alla padrona e mi alzai all’improvviso per andare da lui; ma tornai subito al mio posto, perso da un senso di rispetto per la santa disperazione di quell’uomo.
Il suo compagno gli si avvicinò, gli pose le mani sulle spalle e si piegò su lui per dirgli qualche parola di consolazione; ma, il pianto gli serrava la gola. E allora guardava noi e accennava il suo compagno, e si contorceva e si mordeva le labbra con un’espressione ora di stupido dolore, ora di rabbia feroce.
Finalmente fece un cor risoluto: si strisciò con una mano la barba, scosse la testa e, voltosi al suo compagno, gli disse con voce ferma e sonora:
«Animo, Marcello; fatevi coraggio, via, fatevi…».
Ma non poté continuare, ché singhiozzando si buttò sulle spalle dell’amico a lamentarsi: «Dio ci vedeva nel core, non ci doveva gastigare così».
«Che mondo, eh, Verdiana?», dissi sbacchiando il cappello e il pugno sulla tavola.
«Che vòl che gli dica? Ho cinquant’anni sonati e a un affare a questa maniera non mi c’ero ancora ritrovata.»
Il vecchio, sentendo come io partecipassi al loro dolore, corse da me; e quasi che io solo fossi stato buono di rendergli la pace, mi si raccomandò, stringendomi forte la mano fra i grossi calli delle sue, che non l’abbandonassi, per carità; che l’assistessi, per l’amor di Dio.
«Figuratevi, amico mio! Ma che posso fare per voi?»
«Non ci abbandoni. Non si voleva neanche venire. Ma quelle donne non c’è stato versi di persuaderle; ci hanno voluto mandare per forza incontro a quel ragazzo per vedere di prepararlo, che se ne facesse una ragione…»
«Sta tutto bene. Ma che gli devo dire io meglio di voi che siete suo padre?»
«Non ci importa, gli dica quello che vòle, lei signorìa gli dirà sempre meglio di noi che siamo du’ poveri ignoranti. Mi faccia la carità, signore, perché io, ormai lo sento, appena lo vedo mi manca il core e mi tradisco. Mi prometta di non lasciarci soli, me lo prometta; se no, quel ragazzo mi fa qualche pazzia. Eppoi, ci comandi, e da poveri che siamo c’ingegneremo di ricompensare la su’ carità.»
«Mi tratterrò, via. Ma ora datevi pace e bevete un bicchier di vino.»
«Non potrei… No, in coscienza, non potrei… no, lo ringrazio, non lo bevo davvero.»
«O il vostro compagno?»
«Ora s’è dato un po’ di pace; lasciamolo stare.»
«Come volete.»
Il vecchio tornò adagio adagio dal suo compagno e tutti e due si misero di nuovo a guardare silenziosi in fondo alla via.
«Non lo finisce il cacio?», mi domandò la padrona.
«Non ho più fame.»
«Beve più?»
«No; portate via ogni cosa; ho finito.»
Accesi la pipa e mi misi in fondo alla bottega seduto a guardare di sopra alle spalle dei vecchi la campagna allegra e gli alberi sottili della via che tremolanti alla brezza del marino lasciavano il loro cotone, il quale vagando intorno per l’aria, cadeva fra gli olivi bianco, lento e silenzioso come la neve. Mi perdevo dietro alle mie fantasticherie malinconiche, quando:
«Il cartello di sull’uscio non l’ho mica fatto murare ancora sa?» mi venne a dire a bassa voce la padrona.
«Che cartello?»
«O non si ricorda che l’altra volta ci rise tanto e mi disse che era pieno di spropositi?»
«Ah! sì, sì.»
«Aveva ragione, sa? Un giorno il figliolo dello Scoti, quello che va a scuola dal Piovano, che come lui, dice, per quel che sia la rattenitiva d’imparare le cose, non ce ne pò l’esser altri, ci stette quasi un’ora per ricopiarlo tal quale; eppoi, dopo, fra lui e il signor Cappellano ci hanno studiato tanto e m’hanno detto che lo sbaglio c’era sicuro, perché dice che ci mancava l’i dove si diceva generi… Di che ride?»
«Io?!»
«Credevo… sa, a volte… Dunque anche lei mi dice che ora sta bene?»
«Divinamente. E non lo fate toccar più, se no ve lo sciupano.»
«E allora, sissignore, vòl dire che quando torna Cecchino legnaiolo glielo fo accomodare, si direbbe, in questa conformità.» E tirò fuori di seno la copia corretta del cartello per farmela vedere:
Pane vino ligori
e caffè d’altri gieneri
«Non torce un pelo!»
Era passata una ventina di minuti, quando in fondo alla strada comparve un cane bianco da pastori. I vecchi si alzarono con impeto e si misero a guardar bene, facendosi ombra agli occhi con la mano. Ma il cane, dopo aver dato una nasata all’aria, tornò indietro.
«E ci sono, sapete?» disse la padrona ch’era andata a guardare dalla finestra di cucina. «Non li sentite i campanacci delle pecore?»
«Sta’! sono loro davvero, Gian Luca,» disse il babbo della ragazza. «Animo, fatemi core, e andiamogli incontro.»
Gian Luca era diventato bianco come un panno lavato. S’alzò vacillando e, appoggiandosi al braccio dell’amico, s’avviò incontro al su’ giovinotto. Io non mi mossi.
Già da qualche minuto avevo perso di vista i due vecchi alla svoltata della via, quando vidi riapparire Gian Luca solo, che correva in su a balzelloni, gesticolando colle mani all’aria come un demente. E dietro a lui subito l’altro vecchio che si affaticava a seguitarlo, e smaniante lo chiamava senza essere ascoltato.
«Che sarà stato, Verdiana?»
«Vergine santissima! che sarà stato?»
Il vecchio passò davanti alla bottega… «Gian Luca! che v’è accaduto?»
«Ah! Ah!» disse trafelando dall’ambascia e dalla fatica, e continuò la sua corsa affannosa, mandando un lamento ad ogni sospiro.
«Ma che è accaduto, che è accaduto?»
Il vecchio Marcello me lo disse. Il giovinotto impaziente di rivedere la sua ragazza, alla prima scorciatoia, che gli avrebbe anticipato d’un par d’ore l’arrivo a casa, aveva lasciato i suoi compagni, e via, come una capra, era sparito in un batter d’occhio su pei viottoli della poggiata, distruggendo così le previsioni amorose con tanta cura studiate da que’ poveri vecchi e dalle loro donne sconsolate, perché la barbara notizia non lo colpisse atrocemente improvvisa.
Marcello seguitò la sua corsa dietro all’amico, raccomandosi che l’aspettasse e chiamandolo a nome inutilmente.
Passarono le pecore quasi a corsa, stimolate dalle grida e dalle vergate degli uomini, i quali, sgomenti dell’accaduto, senza sapere che nella bottega c’era un boccone preparato anche per loro, tirarono innanzi mandando fischi e sassate alle pigre; passarono i somari legati a fila per le cavezze, sballottando fra sacchi e corbelli una donna e due ragazzi che li cavalcavano; passò il nuvolo di polvere sollevato da questa truppa tumultuosa, si allontanò adagio adagio il tintinnìo de’ campanacci, e dopo poco si perse per le forre del monte anche la voce di Marcello, che sempre più fioca e dolente chiamava: «Gian Luca! Gian Luca!»
La padrona, dando allora un’ultima occhiata dalla parte dei poggi: «Povere creature!», esclamò. Poi volgendosi con un lungo sospiro alla sua bottega: «E ora, di tutto quel baccalà che me ne faccio?»