Dai racconti delle “Veglie di Neri!”
Questa me la raccontò nel canto del fòco l’amico Raffaello, quella sera che m’invitò a cena a mangiare le pappardelle sulla lepre.
Il sei di dicembre dell’anno passato, te ne ricorderai e se non
te ne ricordi non importa, fece un tempo da diavoli. A guardare la montagna
poi, era uno spavento; e anche di quaggiù si sentiva la romba della bufera che
mugolava fra i castagni, mandando fino a noi qualche foglia secca insieme col
sinibbio che strepitava sui vetri delle finestre come la grandine. Io son fatto
peggio delle gru: più cattivo é il tempo, e più sento il bisogno d’essere in
giro. E volli uscire con lo schioppo in cerca di qualche animale.
A un mezzo miglio da casa, sulla via maestra, incontrai Maso del Gallo tutto
imbacuccato, e lo fermai per sentire se sapeva punti beccaccini.
«Dio signore! sor Raffaello», mi disse soffiandosi nelle mani, «non mi faccia
fermare; mi par d’esser diventato un pezzo di marmo.»
«Insegnami un beccaccino.»
«Ce n’ho uno nella madia che l’ammazzai l’altra sera all’aspetto. Se vòl
quello, lo vada a pigliare, ma altri non ne so davvero.»
«O come mai?»
«O dove li vòl trovare, benedetto lei, se é tutto una spera di ghiaccio? Torni,
torni indietro, ché piglierà un malanno. Ma non lo sente che lavoro é questo?»
Distratto da una truppa di cinque persone che ci passarono accanto, domandai a
Maso: «O que’ disgraziati?».
«Son montanini; non li vede? Vanno in Maremma… Arrivederlo signor�a, in
bocca al lupo; ma torni indietro, dia retta a un ignorante… brééé!…»
E si allontanò lesto lesto, battendo forte i piedi per riscaldarsi.
Io rimasi un momento a guardare impensierito quei poveri diavoli. Quella era di
certo una di quelle famiglie che nell’inverno emigrano dalla montagna, snidate
dal rigore della stagione e dalla fame: il babbo, la mamma, due ragazzetti
sotto i dodici anni e una bambina che, come seppi dopo, ne aveva otto appena
compiti.
Il babbo, un ometto sulla cinquantina, basso, già curvo, con le gambe a
roncolo, stava avanti alla piccola brigata, strascicandosi dietro faticosamente
i suoi gravi zoccoli con le suola di legno alta tre dita; aveva in capo un
berrettaccio intignato di pelle di volpe, calzoni formati di cento toppe di
altrettanti colori sudici e sbiaditi, e giacchetta di mezza lana quasi nuova,
di sotto alla quale scaturiva la lama d’una roncola e il manico d’una
mannaretta raccomandate alla cintola, e teneva per il ferro una scure,
servendosene come di mazza. Col bastone si teneva sulla spalla sinistra un
sacchetto di castagne.
Dietro a lui subito venivano i due bambini vestiti press’a poco come il babbo;
con più una straccio di pezzola passata sopra al berretto e legata sotto la
gola per difendersi il collo dalla neve.
Il primo, con un ombrellone a tracolla tenuto da uno spago, se la rideva
divertendosi a fare i passi lunghi dietro a quelli del babbo, mentre tirava a
stratte misurate il fratello minore che gli andava dietro frignando e
zoppicando, forse pei geloni ammaccati dentro un paio di scarponi da uomo
sfondati e senza legàcciolo.
Volli andargli dietro, volli discorrere col vecchio capofila, e affrettando il
passo, in pochi salti gli fui accanto.
«Stagionaccia, galantuomo», dissi per attaccar discorso.
«Bella non é davvero, signor mio.»
«Andate molto lontano?»
«Per le Maremme.»
«In che luogo?»
«Talamone.»
Egli, vedendomi fare un movimento che voleva dire un «perdio!» di quelli che
chi li tiene in corpo é bravo, mi guardò, sorrise, e continuò:
«Non c’é mica poi tanto, sapete. Di qui passerà poco le cento miglia. Si va su
su, adagio adagio, coll’aiuto di Dio, e quest’altra settimana, alla più lunga
sabato, s’arriva. La strada, non dubitare, la conosco bene; sono trentacinque
anni che la faccio; la sorte m’ha sempre assistito, e per grazia del cielo
eccomi qui. L’anno passato ci menai questo solo», disse, accennandomi con una
spallata il bambino che misurava il passo, il quale nel sentirsi rammentare
perse il tempo per guardarmi, e dando un inciampicone negli zoccoli di suo
padre, andò a battere il naso nel sacchetto delle castagne che il vecchio
teneva a spalla.
«Ci menai questo solo l’altr’anno. Fino a Grosseto, come Dio volle, ce la fece;
l� però gli si sbucciò un piede e mi toccò a portarmelo a cavalluccio… Son
poche miglia di l� a Talamone. Ma quest’anno, caro signore, m’é toccato
menarli tutti.»
«ï¿½ la tua famiglia questa?»
«Questi due sono miei, sissignore; e quella bimbetta l� che, se la guardate,
ha ott’anni finiti e non gli se ne darebbe sei da’ gran patimenti di su’ madre
che non gli ha mai voluto bene, é d’un mi’ fratello che anno di là mor� alla macchia
d’una perniciosa. Mi si raccomandò tanto che ci pensassi io, che quando la su’
mamma quest’agosto riprese marito, non gliela volli lasciare; come che avendo
anche l’approvazione del curato, non gliela rendo più. E quella é Zita, la mi’
moglie.»
«Buon giorno, sposa», risposi ad un saluto malinconico che mi fece con gli
occhi, movendo appena la testa.
«E perché, dovendo condurre questi poveri piccini, non sei andato col vapore o
almeno con un po’ di barroccio?»
«Ci sarei andato volentieri anch’io, caro signore, con un bel barroccio che ci
si va anche con poco», disse guardandomi sgomento, «ma come si fa? Se le cose
anderanno bene, state allegri ragazzi», disse volgendosi ai piccini, «si vedrà
di farne un po’ in barroccio al ritorno.»
«Più volentieri», continuò volgendosi di nuovo a me, «più volentieri li avrei
fatti restare tutti a casa; ma non avevo da lasciargli nulla, signore mio,
nulla! nemmanco un po’ di farina per isvernare.»
«Sta bene; ma per la via come la rimedi?»
«Si fa alla meglio, a dirlo a voi; si va alla carità di questi contadini, e,
per dirla giusta, pochi fin qui me l’hanno ricusata la capanna per dormire e un
tozzerello di pane. L� ci abbiamo de’ necci,» e mi accennò il paniere della
moglie, «e qui dentro ci ho delle castagne, che se non ci segue disgrazie di
doverci fermare, ci basta quasi per arrivare al posto.»
Detti un’occhiata al paniere, al sacchetto e a quelle cinque facce sofferenti,
e mi sentii correre instintivamente la mano al portafogli. Presi quel poco che
mi parve, perché, tu lo sai, disgraziatamente ho da pensare troppo a me, e
accostatomi al bambino maggiore gli detti con cautela, perché non vedesse suo
padre, un piccolo foglio. Mi guardò spaurito, guardò quel che aveva nella mano,
e chiamando suo padre incominciò a gridare:
«O babbo! o babbo! guardate cosa m’ha dato questo signore! O cos’é? o cos’é».
«Digli “Dio vi rimeriti” a questo signore, Tonino; digli “Dio vi
rimeriti”…»
«Non importa, non importa. Addio, monello; buon viaggio e buona fortuna,
galantuomo.»
«Altrettanto a voi, signore, e state fiero.»
Infatti si durava fatica a star ritti, tanta era la forza del vento gelato che, avendogli voltato contro le spalle, ci tormentava sbacchiandoci nel collo un nevischio duro e tagliente come vetro.
Questo piccolo disgraziato, a forza di rasciugarsi il moccio e le lacrime con la manica della giacchetta, se l’era ridotta, fino al gomito, un cartoccio di ghiaccio.
Dieci passi addietro veniva la mamma, pallida, smunta, impettita, con gli occhi a terra, camminando a ondate gravi come tutti gli abitanti delle montagne, la quale, avendo infilato il braccio sinistro nel manico d’un paniere, teneva la mano sotto al grembiule, e con l’altra quasi strascicava la bambina che, inciampando in tutti i sassi, le andava dietro come un orsacchiotto, rinfagottata in un lacero giacchettone da uomo che le toccava terra. Aveva i suoi duri zoccoletti di legno, e le mani rinvoltate dentro a degli stracci fermati al polso con fili di ginestra.
La strada doveva a loro sembrare in quel momento poco faticosa, perché il vento se li portava quasi in collo e li balestrava ora di qua, ora di là dalla via, facendo schioccare come fruste que’ po’ di cenci che avevano addosso.
«Vanno in Maremma!», aveva detto Maso. «Quando ci arriveranno? Come ci arriveranno?»: questo chiedevo a me stesso, e non sapevo levar gli occhi da dosso a quel compassionevole gruppo che fra pochi minuti non avrei più potuto scorgere attraverso alla nebbia del nevischio.
Quando la madre, che aveva mantenuto i suoi dieci passi di distanza, mi passò davanti «Dio vi benedica!» mi disse. E stetti qualche momento a vederli allontanare tra la bufera, che rammulinava la neve sempre più gelata e più folta, fischiando attraverso gli alberi brulli della via.
Qui Raffaello s’interruppe per dire a Gano che buttasse un altro ciocco sul fuoco; poi, dopo esser rimasto qualche momento col capo basso a pensare, lo rialzò per domandarmi: «Che ne sarà stato?».