Il contrappasso precario

Sorrisi agonizzante ai miei aguzzini
mentre con un enorme tuffo sprofondavo in una vischiosa melma nera.
Dopo un altro fallimento mi guardavo recitare lo stesso copione:
un profluvio di saluti, inchini, baciamamo e ringraziamenti.

Avevo i capelli lordati di antropici liquami
e sentivo i miasmi della disoccupazione che mi aspettava
ma nessuno sembrava vedere quel mosto o percepirne il fetore.
Cercai di risalire dalla sordida pozza ma ne ero inquinata fin dentro alle ossa.

Potevo sentire il fragore della Solitudine che mi richiamava a sé,
la sua tragica eco che mi afferrava con unghie ripugnanti, facendomi rabbrividire.
Avevo nelle narici l’afrore della Tenebra che già mi aspettava
senza scampo alcuno, in una prospettiva gattopardesca.

Sempre esiliata e incapace di fare breccia
mi trovavo fuori da quel mondo elitario, da quelle mura,
con la terra che mi si sgretolava sotto i piedi
in un cerchio di dimenticanza che ruotava all’infinito.

Dannata come Sisifo a ritentare per sempre
rividi nella mia mente il giorno
in cui i colleghi mi lasciarono andare,
ignari di regalarmi nuovamente l’oblio:

rividi urla, pantere, cagne, lottatori,
fiere strette ad asse che si faceva cerchio e arena
asserragliati per difendere un posto e un luogo
in un duello tra miserabili.

Io da poco padrona della mia vita
ero come la regina di un regno malato ed imperfetto:
vani abnegazione, sacrificio, adulazione e panegirici d’ogni sorta:
tornavo docile equilibrista alla fine degli applausi

Sarebbe bastato rinunciare al futuro per porre fine a questo teatrino difettoso,
mi ostinavo invece a ritentare in eterno
stoicamente sollevandomi dal lerciume della mia condizione
sorridendo alle altre marionette con stolida speranza.