Archivio Sonetti
Giobbe 2016
Dammi la forza vita che mi lasci
quel tanto di speranza per alzare
domande che circondino l’altare
in cui sei già deposto quando nasci.
Senti negli occhi le urla farsi fasci
scariche tremebonde da affrontare
legati come corpi da insultare
belati di un agnello che non pasci.
Tu sei dovunque cresce l’attenzione
per le zolle di umano derelitte
eppure la tua assenza ci sgomenta
quando sei muto ad ogni invocazione
di cuori che sussultano con fitte
preghiere dove l’anima si allenta.
Giochi rossi d’oblio
Ho visto dei timidi fiori rossi
nascere all’ombra di boschi folti
E voli di corvi dal vento smossi;
Pianti di vespe dal cielo accolti.
Ho visto dei piccoli fiori scossi
dalla polvere di campi incolti.
Lo strazio di steli verdi rimossi.
Di petali sparsi mai più raccolti.
Ho visto un canto rosso di pena
torreggiare come l’arcobaleno
tra le voci color sangue di vena.
Ho visto un fiore che si dimena:
Un Papavero rosso tra il fieno.
E l’autunno che lo coglie di schiena.
Gioia desueta
Afose giornate estive
Tanti pensieri si affollano
Sottratti dalle onde trasversali
Distesa di sabbia
Modella le tue fantasie
Soffice ti accarezza il viso
Musica soave
Continua a suonare
Accompagna le tristi giornate
Sole splendente
Brucia le sofferenze
Illumina il sorriso dei passanti
Poi arriva la notte
La nostalgica luna
Soffia l’ilarità
Deprimente alba fatata
Colora il cielo
Con le candide ali
Torrida stagione
Cela un enorme mistero
Negato dalla natura sprezzante
Guardami ancora
Mi ricordo quando ancora bambino
ci si riuniva tutte le sere
con la famiglia accanto il camino
o tutt’intorno al calor del braciere.
Ed ognuno di se si raccontava,
e mia nonna ogni dì una storiella,
mia madre allor mi coccolava
all’antico profumo di un’umile frittella.
Si dice che il progresso è or giunto
con whatsapp e like nei veloci via vai.
Non verdi tralci ma diventiam rami secchi.
Era scomodo il braciere defunto
ma tanto mi manca il “ciao come stai?”
stringendoti la mano mirando i tuoi occhi
Ho scorto nel tuo viso forme sempre più straniere
«Ho scorto nel tuo viso forme sempre più straniere,
sentieri oscuri dai quali fuggire.
Sul mio, invece, sono marcati i segni delle bianche bandiere
e li ho coperti di attese fino ad impazzire
Quanto ancora mi è cara la tua vita, non è una paura
ed è perché ci è sempre caro ciò che viene dall’animo.
Vedo il sole riposarsi sempre di più nel cielo e mi rammenta il fuoco della Congiura,
tanto quanto la Gravità tenta di ammassarci in qualche luogo intimo
Come un albero di pesco si spoglia in dicembre
così appassiscono i nostri sguardi caotici
ma vorrei poter dare rinnovata tonalità alle nostre ombre
e riprendermi ogni, singola, fallibile sfaccettatura della scommessa
proprio come quei crucci metafisici
per i quali un vero filosofo manterrebbe la promessa»
Ho visto il vento soffiare
Ho visto il vento soffiare lontano
ai principi della vicina primavera,
gelide onde nel cuore distinguo
tra policrome menzogne; ardono
le finestre delle follie di nudi spiriti.
Dai quieti occhi vestiti d’argento
m’incammino tra angoli remoti
compatendo il tramonto; d’ansia
si colmano le ciglia dei fiori,
e reclama il fiume ottusi silenzi.
Alla lubrica foschia della vertigine
l’anima mia ora si abbandona;
come fuliggine d’autunno appese
sono le reminiscenze che placide
e invisibili mani hanno tessuto.
Ho visto il vento soffiare tra rombi
di campane, silenzi d’esequie.
Si va già affievolendo la fredda
lanterna sul far del di tramonto,
e lieve mi è il tornar umano.
Hotel Rigopiano
Tace il meriggio, poi un boato e l’onda
che rotola e cancella la vallata
la terra trema, le ginocchia tremano
la vita scivola in un inferno bianco
Ho visto alberi venirci incontro
tra le pareti accartocciate e gelide,
chiudersi la tua mano nella polvere
tacere il grido e affievolirsi il pianto
Svanisce il male e resta la bellezza
degli occhi, del tuo viso madreperla
nel riverbero chiaro dei ghiaccioli
S’allungano le braccia nei cunicoli
ombre s’insinuano là dove è vita
Luci per noi, blu intenso, batter d’ali
I gatti e le note
Un gatto triste come una nota
persa, caduta da uno spartito,
riparato in una cesta vuota
lì, dietro un geranio appassito.
Un micio come una nuova nota
colta durante un gaio invito
a pranzo, nel piatto una carota,
da lontano il suo verso smarrito.
Gerry, la solita nota al piano
risuonata con un tocco distratto,
il suo fron-fron comodo sul divano.
Felini che compaiono a scatto
scorrono dalla mente alla mano
che disegna di note un sol gatto.
I miei pensieri per te
C’è che mi hai aperto un mondo;
c’è che quando la tua voce mi sfiora
il mio cuore batte in modo strano…manca un battito
e all’improvviso sussulta e palpita;
c’è che quando sorridi, smetto di pensare a qualunque cosa…
perché in quel sorriso ci trovo esattamente il posto nel quale rinchiudere
i miei timori, le mie incertezze
che di colpo tramuterebbero in sicurezza…
perché è questo che avverto quando sono con te;
c’è che il leggero movimento della testa che fai
quando timido sorridi
inarcando gli occhi – che brillano –
mi fa tremare;
c’è che il tuo dolce sguardo,
quando per caso o no incrocia il mio,
mi fa credere che se vale la pena di rischiare l’Amore per te lo farei…
perché un fiore così bello sarebbe un dono custodirlo nel mio cuore…
per sempre…un dono forse troppo grande che immeritatamente riceverei,
cercando di proteggerlo in ogni mio istante.
A volte mi chiedo perché ci ho messo così tanto a scoprirti,
tu che dal primo momento hai suscitato in me un’emozione strana.
Mi sei entrato dentro piano
ed ogni giorno sperimento la bellezza di questo incontro,
che lascia un seme
anche solo incrociandoti per pochi attimi.
Non so dirti perché,
non so dirti come né quando
hai iniziato a far vibrare il mio cuore,
il mio essere,
ma di una cosa sono certa: ciò che mi scuote non è del mondo,
è un sentimento puro che mi arriva dritto all’anima e
mi accarezza dolcemente.
Non so dirti il perché
ma so per certo che
nelle tue braccia,
nelle tue mani,
nelle tue parole,
nelle tue risate, in quel sorriso…
nel tuo sorriso…
nel tuo volto,
nel tuo passo lento timido e deciso al contempo…io mi rifuggerei…
per sempre!
Tu sei un fiore prezioso che l’eternità avrà cura di custodire…
e se fosse donato proprio a me,
lo preserverei con tutto l’ardore di cui sarei capace,
amandolo totalmente.
Idillio
Comprimo la durata
di una stagione
d’idillio
nelle quattro stagioni
della mia gioventù.
Risate di leccalecca,
posti di baci
inediti sul mio quaderno
Adesso pianto rose di ciclamino
con la speranza
di semi diamantini
per inanellare la coscienza
di un amore perduto.
Il congedo del padre
A ogni tuo passo ha inizio un altro mondo,
uno stato diverso delle cose;
basta un nonnulla, il tempo male inteso,
un’imprevista apertura di spazio,
che tutto, proprio tutto, venga meno.
Ti guardo, parlo, che altro posso fare,
il tuo presente non è il mio, e passato
e futuro non sono di nessuno.
Io rimango, tu devi andare avanti,
un congedo è contrario ad ogni bene,
pertanto lascia perdere saluti,
baci e abbracci, cancella anche i ricordi,
a te non servono, hai già l’espressione,
alcuni gesti, il mio modo di dire.
Il contrappasso precario
Sorrisi agonizzante ai miei aguzzini
mentre con un enorme tuffo sprofondavo in una vischiosa melma nera.
Dopo un altro fallimento mi guardavo recitare lo stesso copione:
un profluvio di saluti, inchini, baciamamo e ringraziamenti.
Avevo i capelli lordati di antropici liquami
e sentivo i miasmi della disoccupazione che mi aspettava
ma nessuno sembrava vedere quel mosto o percepirne il fetore.
Cercai di risalire dalla sordida pozza ma ne ero inquinata fin dentro alle ossa.
Potevo sentire il fragore della Solitudine che mi richiamava a sé,
la sua tragica eco che mi afferrava con unghie ripugnanti, facendomi rabbrividire.
Avevo nelle narici l’afrore della Tenebra che già mi aspettava
senza scampo alcuno, in una prospettiva gattopardesca.
Sempre esiliata e incapace di fare breccia
mi trovavo fuori da quel mondo elitario, da quelle mura,
con la terra che mi si sgretolava sotto i piedi
in un cerchio di dimenticanza che ruotava all’infinito.
Dannata come Sisifo a ritentare per sempre
rividi nella mia mente il giorno
in cui i colleghi mi lasciarono andare,
ignari di regalarmi nuovamente l’oblio:
rividi urla, pantere, cagne, lottatori,
fiere strette ad asse che si faceva cerchio e arena
asserragliati per difendere un posto e un luogo
in un duello tra miserabili.
Io da poco padrona della mia vita
ero come la regina di un regno malato ed imperfetto:
vani abnegazione, sacrificio, adulazione e panegirici d’ogni sorta:
tornavo docile equilibrista alla fine degli applausi
Sarebbe bastato rinunciare al futuro per porre fine a questo teatrino difettoso,
mi ostinavo invece a ritentare in eterno
stoicamente sollevandomi dal lerciume della mia condizione
sorridendo alle altre marionette con stolida speranza.
Il faro
Piangi, se piangere ti alleggerisce
il peso dell’assenza, ma ricorda
che l’amore col tempo non finisce
e questo sorriso dura per sempre.
Torna la primavera che gioisce
di luce e di fiori dopo la pioggia.
Tornerà anche l’autunno che ingiallisce
le foglie e spoglia i rami per l’inverno.
Ma l’aria resta. Più umida o secca,
resta dovunque ti trovi, dovunque
ti rechi, dovunque cerchi un riparo.
Nel buio della notte sarò il faro
che allunga la sua luce su chiunque
e canta una nenia muta e non stanca.
Il giorno più bello
Brilla una stella nel cielo silente
antica storia di luce e mistero
sempre emoziona ogni cuore sincero
letizia dona del mondo alla gente
Dolce sorriso di bimbo innocente
piega il ginocchio dell’uomo più altero
dice fratello sia al bianco che al nero
allevia angoscia a chi ancora è perdente
Di notte soave ben chiara è l’impronta
sia presto un amico di ieri il rivale
con mano tesa a far pace già pronta
Di gioia gran canto in animo sale
il giorno più bello prodigio appronta:
si può di nuovo brindare al Natale!
Il lombrico
Sono un tuo grande fan, lombrico, prodigio di natura,
che dell’asparago cantato da Manet e da Proust
sei il fratello animale, che come sulla banchisa
la foca iridescente e tozza avanzi balzelloni,
che del fondale del giardino sei la mite oloturia,
che senz’altro aspiri il terriccio fragrante con il gusto
con cui noi aspiriamo l’alito di Dixan delle case,
che passeggi in un tuo verziere rovescio di fittoni.
Non conosci la distinzione tra la bestia da traino
e la bestia da latte, né tra lo sforzo del pascere
e quello dell’arare — tutto per te ha pari valore;
tubo che ha la terra per mezzo e contenuto, sai
che ciò che ingurgiti è lo stesso dell’impronta che lasci,
e ciò che ti circonda forma la tua vita interiore.
Il marinaio del Talani
Con i piedi scalzi in questa tinozza
vòlto sotto il ginocchio il pantalone
gli stralli scossi e la sartia si strozza
Libeccio inquieto fruscia il gonfalone.
Capelli crespi che il vento rintuzza
salmastro adusto frena un’espressione
col fiero guardo che l’occhio strizza
sfida risacca e l’aspro cavallone
Tramontana spuma secco fendente
con braccia conserte in superba posa
giocosa idea e pensiero splendente
Dal riccio capello e spiaggia schiumosa
il marò surroga male cocente
a Giampaolo memoria virtuosa
Il mestiere del poeta
Scrivere poesie non significa
sedere sul Parnaso o sul bugliolo
oziando oltre il tempo dell’oriolo
per scovar l’arte immaginifica.
Per trarre il vero in versi verifica
il bisogno d’amore o di duolo:
l’alma eccitata dal vin Barolo
basta a trovar la musa munifica.
Suvvia Poeta, non ti crucciare
se nella vita Fama non si mostra
né la Fortuna la fa da padrona
perché nient’altro è più accattona
e innocua della poesia nostra:
è questa la sua virtù nobiliare.
Il mio canto notturno
Nel silenzio della notte, la paura
e i sogni si risvegliano dal lungo
letargo e la quiete spegne il dolce
suono di un’oboe d’amore.
Crudeli menzogne che ammaliano
il piacere del mio canto notturno,
in questa disadorna e tragica
agonia dei sensi della mia storia,
nel viaggio della zattera scomparsa.
Quando le stelle nel buio
della notte risplenderanno
in cielo, nel rutilante cammino
tra le tenebre, aprirò il mio
cuore per raggiungerti.
Vorrei regalarti la mia anima,
tra la luce soffusa delle acque
vetuste delle ninfee, e gli impervi
scogli dei desolati inverni.